L’alleanza fra contenuto e contenitore per una qualità di sistema degli alimenti
Secondo Leonardo da Vinci, definito da Fritjof Capra (2009) il primo pensatore olistico, l’ingegno umano mai troverà invenzione più bella, né più facile né più breve della natura, perché nelle sue invenzioni nulla manca e nulla è superfluo. Ispirandosi dunque a come la natura protegge spontaneamente i suoi prodotti e conserva le loro caratteristiche di freschezza, l’essere umano anche in quello che è stato lo sviluppo della tradizione gastronomica, ha saputo trarre importanti insegnamenti per “progettare” contenitori che per forma e funzione fossero adatti a preservare i propri manufatti culinari.
All’occorrenza quindi si è ingegnato per elaborare involucri che garantissero la conservazione e la protezione degli alimenti. Non solo. Spesso a questi contenitori è andato il merito di riuscire ad esaltare il sapore del contenuto o di arrivare a fornire indicazioni sul suo livello di qualità, alla stregua di un’interfaccia comunicativa.
Le condizioni d’uso specifiche dei contenuti hanno così determinano le principali caratteristiche del “contenitore”, mentre il tipo di ambiente, distribuzione e consumo, le funzioni e la durabilità che doveva avere, in modo che il processo di conservazione non fosse intaccato da agenti interni ed esterni ma bensì supportato.
Si è così realizzata una relazione dialettica e biunivoca fra contenuto e contenitore, un connubio che spesso è divenuto inscindibile o del quale si è persa la cognizione del dove finisse l’uno ed iniziasse l’altro.
Questa simbiosi sana e funzionale, nel corso del tempo e con le esigenze imposte dai grandi numeri e distanze della commercializzazione moderna dei prodotti alimentari, è tuttavia venuta meno ed è stata sacrificata per fornire un servizio a supporto del consumo del prodotto, quanto piuttosto del contenuto in sé.
Gli imballaggi primari hanno perso di vista il semplice principio d’ispirazione naturale della “forma legata alla funzione” saturandosi d’iconografie cariche di significati indotti, frutto della necessità di un modello produttivo lineare e poco integrato con il territorio e la collettività, di un’ “economia irreale” in cui “l’abito è un involucro semiotico” (Bistagnino, 2013), mai neutrale e alla ricerca costante di appropriarsi dell’attenzione del fruitore.
Il risultato è stato una perdita d’identità del contenuto, spesso asservito alle esigenze di marketing, di efficienza e di sostenibilità per il sistema, se si prende ad esempio in considerazione, la durata di vita degli imballaggi (molto spesso troppo breve, soprattutto se posta in relazione ai materiali utilizzati) e il sovradimensionamento dei sistemi di confezionamento (Langella, 2009).
La subordinazione del contenuto al contenitore è diventata così l’emblema di un modello di sviluppo in cui si passa paradossalmente da una ricerca estetica estremizzata nei prodotti a vita brevissima e destinati ad un consumo immediato, all’esigenza commerciale di estendere il più possibile la shel life di quelli a lunga conservazione, correndo il rischio in entrambe i casi di creare una dissonanza eccessiva tra l’aspetto del prodotto e le aspettative del consumatore, che ha reso sempre più lontana e impercepibile quella che è la dimensione reale del contenuto (Gallen, 2005).
Solo recentemente sembrerebbe che accanto alla consapevolezza di ridurre il peso degli imballaggi e alla richiesta da parte dei consumatori di materiali di confezionamento meno intrusivi a livello ambientale, stia crescendo la domanda di prodotti alimentari dal contenuto “normale” (nelle sue declinazioni di genuino, naturale, familiare) ma non per questo banale, che scevro da fronzoli e orpelli sia piuttosto veicolo di una “qualità di sistema”, in cui è lo stesso contenuto a diventare il portavoce del sistema-contenitore nel quale è inserito. Tale qualità altro non è che la somma di fattori naturali (evolutivi), oggettivi e soggettivi, caratterizzanti la sostenibilità sociale, ambientale, economica e sensoriale di un determinato prodotto o servizio e che gli conferiscono l’attitudine a soddisfare i bisogni espressi o impliciti di un ecosistema determinando armonia attraverso la ricerca di un equilibrio dinamico nel tempo tra i fattori che lo compongono (Fassio, 2013) e in cui possano trovare la giusta valorizzazione, i tessuti locali socio-istituzionali e le relative risorse tecnico-economiche che lo caratterizzano (Mancini, 2010). Le relazioni di sistema interne alla filiera e le accortezze sistemiche adottare per la sua progettazione diventano così elemento valoriale del contenuto.
Dalla definizione di questo concetto nuovo concetto di qualità di sistema, che Slow Food declina nello slogan del Buono, Pulito e Giusto (Petrini, 2005), e dalla possibilità che esso generi nuovi meccanismi sensibili alle esigenze ambientali e delle altre dimensioni della sostenibilità, deriva tuttavia la necessità di una presa di coscienza forte, che renda l’individuo capace di riconoscere, valutare, apprezzare e infine, scegliere un prodotto (Fassio, 2011).
A questo punto ritorniamo, richiudendo il cerchio, alla funzione di un imballaggio che si adatta alla forma del contenuto e che oltre ad assolvere la funzionalità protettiva, assume una nuova funzione comunicativa in senso etico. L’attribuzione di questa funzionalità aggiuntiva, in un certo senso riabilita l’imballaggio, che da strumento di seduzione persuasiva diventa una carta d’identità del sistema prodotto, mezzo di avvicinamento, conoscenza, comprensione della struttura articolata del contenuto, che riduce l’asimmetria informativa tra produttore e consumatore, permettendo a quest’ultimo di distinguere le differenze qualitative del prodotto e di effettuare scelte coerenti con le proprie esigenze ed aspettative. Non si tratta in questo caso di limitarsi al solo contenuto informativo presente nelle etichette alimentari, ma di progettare il contenitore come strumento attivatore e punto d’innesco modale di una connessione comunicativa (e perché no, multicanale) del contenuto con il consumatore.
Il contenitore può così diventare un ottimo anello di congiunzione tra processi di stampa tradizionale e strategie basate su internet e sui media digitali, per valorizzare la personalità del contenuto allargando l’esperienza d’uso dei clienti, tramite ad esempio, informazioni sulla loro storia, istruzioni e guide avanzate sul loro utilizzo, capaci di rendere giustizia a caratteristiche quali la manualità, la naturalità e la particolarità delle piccole produzioni.
Ecco che quindi il design per la sostenibilità nel settore food diventa più efficace se diventa sistemico, ossia se oltre a riguardare i singoli prodotti nelle loro componenti, riesce anche a coinvolgere l’intero sistema di prodotti e servizi che li riguardano, nonché i modelli di produzione, distribuzione, consumo e comunicazione attraverso i quali raggiungono il consumatore, supportandolo nella comprensione del contenuto valoriale e reale.
Per ogni cibo, dunque, il proprio imballaggio, ovvero un intreccio di valori che vanno previsti e controllati per garantirne la protezione, gestirne le fasi di manipolazione e di consumo, evitarne lo spreco, esaltarne la qualità del sistema che rappresenta ed accentuarne il suo valore simbolico. In tal senso è fondamentale guardare a come natura e tradizione hanno interpretato la relazione tra forma e funzione nel tempo, ma anche, per far riemergere alcuni valori che oggi possono essere portatori di ripensamenti sugli stili di vita e sui consumi.
Franco Fassio – Ricercatore in Eco Design e Systemic Design presso l’Università di Scienze Gastronomiche
Contenuto-Contenitore
La scommessa scientifica è alla base della ricerca di cui qui si dà conto: conoscere in che misura la cucina si esprime sul territorio italiano, a partire da areali di prodotto estremamente puntiformi e poco diffusi, sino a giungere a piatti che appartengono all’intera nazione. Un complesso progetto gastronomico, che può essere sintetizzato nella lettura critica e cognitiva della preparazione di un cibo che si realizza attraverso la costruzione gastronomica di un alimento-contenuto compreso in un alimento-contenitore. Si tratta di un percorso profondamente artistico, perché il contenitore ri-veste il contenuto, dando vita ad un sistema per lo più edibile che può suggerire analogie, metafore vestimentarie alle procedure di imballaggio del cibo, poiché involucro esso stesso di se stesso.
Scopo di questa ricerca è dunque esplorare e valorizzare le pratiche tradizionali e contemporanee di “imballaggio” alimentare “naturale”, in cui l’involucro diventa, da un lato, parte integrante dell’esperienza gastronomica e della pietanza, dall’altro, forma, elemento di protezione, di arredo, di bellezza, tratto estetico partecipe e principio decisionale della proposta gastronomica: in estrema sintesi, del buono e del bello da mangiare, in altre parole, come direbbe Lévi-Strauss, il cibo in questo modo può diventare “buono da pensare” (Lévi-Strauss).
Il progetto, operativamente, si propone di dare vita ad un primo, ma sostanziale censimento volto a documentare e rappresentare i piatti, gli alimenti cucinati, costituiti da un contenuto sempre edibile e da un contenitore non sempre edibile. Si tratta di un progetto gastronomico in cui forma e contenuto diventano espressione interpretativa, a volte autorevoli indicazioni di senso per capire meglio in quale misura la cucina italiana si esprima attraverso elaborate ed estetiche forme e pratiche: dove il buono che è già parte ed espressione del contenuto si arricchisce di bellezza attraverso il contenitore. Un patrimonio di conoscenza che, a volte, trova interessanti espressioni culinarie nei piatti della tradizione, e che, al presente, diventa elemento fortemente identificante dell’operare delle nuove generazioni di cuochi che cercano tratti distintivi della loro cucina, se non veri e propri elementi di originalità attraverso nuove e interpretate forme del cibo. Contenuto-contenitore è anche una categoria gastronomica, che può essere letta come pratica virtuosa per riproporre, ricombinando sapientemente forme e sapori, gli scarti alimentari, i resti della cucina della settimana. Attraverso una rielaborazione sostanziale e formale dei resti si riesce a ri-creare cibi che diventano il piatto topico e tipico della domenica, della festa, della cerimonialità, delle ricorrenze più importanti del ciclo dell’anno, del tempo dell’eterno ritorno (Eliade). Gli agnolotti e tutte le forme di impasti racchiusi in veli di pasta diventano il cibo del tempo eccezionale e sono alla base dell’affettività che governa e fornisce indirizzo di senso identitario ai pranzi collettivi e di condivisione famigliare e comunitaria. Contenuto-contenitore è dunque una virtuosa strategia gastronomica, che permette agli scarti alimentari di non giungere in pattumiera, ma di rivivere una nuova e, a volte, più prestigiosa, edibile vita riproduttiva e affettiva.
Bricolage Contadino
In questo quadro il cibo contenuto-contenitore è senz’altro parte di un tema antropologico importante, quanto poco indagato, quello del saper fare tradizionale, della fabrilità contadina, risorsa preziosa che ha caratterizzato anche il percorso evolutivo dell’agricoltura tradizionale.
Claude Lévi-Strauss ha elaborato una complessa teoria riguardante il bricolage contadino (1962). Il quadro teorico evidenzia come il contadino, che ha ereditato dalle generazioni precedenti il gesto e la parola, tratto costitutivo del sapere orale che è alla base dei processi di formazione e di trasformazione della società tradizionale, possieda la capacità di operare creativamente sui saperi materiali e immateriali, ricombinandoli creativamente. Nel vasto dibattito scientifico suscitato dalla teoria dell’antropologo francese si inserisce l’autorevole contributo di François Jacob. Lo studioso evidenzia come i processi evolutivi operati dalla selezione umana sembrano rispondere più alle logiche che sottendono all’operato del bricoleur, piuttosto che a quelle razionali messe in opera dall’ingegnere, poiché quest’ultimo “lavora a tavolino secondo un progetto lungamente maturato” (p. 16). “L’ingegnere si mette all’opera solo dopo aver riunito i materiali e gli strumenti che servono al suo progetto” (p. 17). Nelle mani del bricoleur, invece, si accumula “tutto ciò che trova in giro, le cose più strane e diverse, pezzi di spago o di legno, vecchi cartoni che potrebbero eventualmente fornirgli del materiale: insomma un bricoleur che utilizza tutto ciò che ha sotto mano per farne qualche oggetto utile” (p. 17). Non esiste, quindi, nel contadino bricoleur, un progetto che anticipa la ricerca del materiale per la realizzazione di un oggetto, perché i materiali a disposizione non possiedono un’intrinseca destinazione specifica. Ogni scarto o frammento di oggetto che viene soppesato, interrogato dalla mano del bricoleur, ripetutamente chiedendosi gestualmente a che cosa può servire ricombinato con altri insiemi di oggetti, può determinare inaspettati risultati. L’esito e la funzione dell’oggetto creato a partire dagli stessi insiemi di scarti può anche essere diverso nella misura in cui le potenzialità delle singole parti dell’oggetto vengono interpretate da persone differenti. Infatti “i bricoleurs che si dedicano ad un identico problema, ad un’identica intenzione progettuale, hanno molte probabilità di giungere a soluzioni differenti”. Questo saper fare empirico, sperimentale, fabrile, soggettivo viene ricondotto da Jacob all’operare che sottende al processo evolutivo: “L’evoluzione si comporta come un bricoleur che nel corso di milioni e milioni di anni rimaneggiasse lentamente la sua opera, ritoccandola continuamente, tagliando da una parte, allungando da un’altra, cogliendo tutte le occasioni per modificare le vecchie strutture in vista delle nuove funzioni” (p. 18).
Se le cose stanno così, è evidente che la creatività contadina che si fonda sul gesto e la parola, e dunque su formule non scritte, base costitutiva della memoria volatile propria delle società prive di scrittura, diventa un essenziale e funzionale contributo al processo culturale evolutivo che caratterizza il lungo percorso dell’umanità.
Al di là dei diversi punti di vista e delle varianti che i due studiosi appartenenti ad aree disciplinari differenti hanno espresso, soprattutto per quanto riguarda il rapporto più o meno stretto tra il bricoleur e l’ingegnere, su come il comportamento progettuale del contadino sia, per molti versi, assimilabile a quello dell’ingegnere e su come ambedue procedano, più o meno consapevolmente, nel loro progetto creativo, risulta per noi importante osservare la fecondità del quadro teorico proposto. Riteniamo, infatti, che questa progettualità permetta di comprendere meglio il contributo innovativo che il mondo della tradizione ha apportato nel più vasto quadro del processo evolutivo umano.
A partire da questi resti, come abbiamo visto, il contadino operava ricombinazioni creative, generando nuovi oggetti per la cascina. Allo stesso modo, si comportava la donna di casa, che organizzava la cucina. Ciò che rimaneva di un pranzo veniva reinventato in un creativo processo culinario ricombinatorio, che ha generato, nel tempo, l’eccezionale e, nel contempo, parsimoniosa cucina delle colline della festa e della fatica. Il bricolage che la donna esercita in cucina diventa un progetto produttivo, con ogni probabilità ancor più interessante e importante di quello praticato dall’uomo. Infatti la donna, nel quotidiano esercizio di provvedere il cibo per la famiglia, che nel passato era estesa e, quindi, composta anche da diverse persone e di generazioni lontane tra di loro, dunque bisognose di cibi di differenti proprietà e calorie, dà vita ad un’azione riproduttiva legata al piacere che la cucina induce, attivando nel profondo i dispositivi sensoriali. Una pratica gastronomica creativa, che quotidianamente la donna mette in scena ingegnandosi con scarse risorse, a volte anche con pochi scarti alimentari, confezionando piatti che servono a nutrire la grande famiglia. Si tratta, dunque, di un esercizio riproduttivo fondamentale, che può essere accostato a quello sessuale, anche perché ambedue si fondano sul piacere e, dunque, come ci suggerisce Jacob, su “una delle trovate più ingegnose dell’evoluzione”. Infine, la catena alimentare quotidiana che la donna mette in atto non si esaurisce con il consumo in famiglia: infatti, tutto quel poco che rimane dello scarto elaborato sapientemente nel pranzo di casa viene ancora ricombinato per nutrire gli animali domestici della cascina.
Il saper fare dell’uomo e della donna bricoleur è, dunque, una pratica virtuosa cogente e armonicamente integrata nel più vasto mondo contadino tradizionale, che si caratterizza per la sua capacità di non produrre rifiuti, di ritardare, ricorrendo ad un complesso sapere orale e gestuale, l’immissione nell’ambiente degli scarti. Un modello di sviluppo ecologico della società, che il presente stoltamente ha dimenticato. In campagna non si buttava via nulla. Tutto quello che diventava inservibile andava ad alimentare insiemi di cose depositate nell’ampio porticato della cascina e nella dispensa della cucina. Spazi che potevano ospitare tanti insiemi di oggetti esausti, metaforicamente quasi un museo, dove il contadino e la massaia si indirizzavano quando avevano la quotidiana necessità di affrontare la giornata attivando sempre nuove progettualità in funzione di ciò che gli “archivi” della cascina mettevano a disposizione.
Arte Plastica Effimera
La categoria contenitore-contenuto rappresenta, inoltre, l’esercizio gastronomico che meglio esprime il concetto di arte plastica effimera proposto negli anni Settanta del trascorso Novecento da Alberto Mario Cirese per interpretare il concetto di arte che il fare e il saper fare del mondo contadino, quello dell’oralità, del gesto e della parola esprimeva con grande creatività. L’antropologo, per quanto riguarda il cibo, fa riferimento ai pani cerimoniali sardi. Una produzione alimentare in cui la capacità artistica del panettiere e delle donne sarde dà vita, si esprime in modo evidente, permettendo la preparazione di pani che ricostruiscono figure mitologiche e religiose connesse alla ricorrenza calendariale per cui vengono impastati e cotti. I pani artistici solitamente non vengono consumati subito e, se ben conservati, rimangono edibili per lungo tempo, protraendo una durevole funzione segnica, caratterizzando l’ambiente famigliare o sociale in cui vengono esposti. Un’arte popolare plastica, che non sempre permette una conservazione naturale. I pani cerimoniali sfidano il calendario, a volte il giro di un anno, come i “micun” di Belvedere Langhe, che vengono distribuiti la seconda domenica dopo Pasqua dalla confraternita di san Sebastiano. Essi vengono in parte mangiati e in parte conservati quali elementi terapeutici per la famiglia e gli animali della cascina quando sorgono problemi di salute. La risorsa magico-religiosa e apotropaica di questi pani benedetti dura, dunque, il tempo di un anno, un giro di stagioni, quando, al ritorno della primaverile benedizione dei pani, si sostituiscono quelli conservati nel corso dell’anno.
Piercarlo Grimaldi – Rettore dell’Università di Scienze Gastronomiche